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L'UNITA'
5 gennaio 2006
Travaglio, il mondo rimesso in piedi sui fatti
di Furio Colombo

GIORNALISMO
Un fantasma si aggira in Italia: la sparizione dalla politica e dalla cronaca dell'evidenza comprovata. Ecco un libro per contrastare il fenomeno

Con La scomparsa dei fatti, il suo ultimo libro (appena pubblicato da Il Saggiatore, pag. 315, 15 euro), Marco Travaglio allarga di molto l'orizzonte della sua inchiesta senza fine dentro le ombre e i silenzi della vita italiana. I suoi libri hanno un successo immenso perché, da subito, in tempo reale, Travaglio ha cominciato a dimostrare che le ombre non sono parte di una naturale fisiologia della vita pubblica e i silenzi non sono «omissis» dovute a ragioni alte o obiettive di necessità. Come nelle prime battaglie pubbliche contro il fumo che uccide, Travaglio - che è immensamente popolare tra i lettori - è visto come un guastafeste o un testimone non richiesto da un vasto schieramento di addetti ai lavori che non amano incursioni nei loro retrobottega, là dove tanti Totò Cuffaro incontrano tanti personaggi imbarazzanti per dire e ascoltare ciò che è bene non sapere e non intercettare, neppure nel corso di un'inchiesta giudiziaria.
La tipica accusa che i responsabili di quelle vaste coltivazioni di foglie di tabacco che sono i campi della politica, è di scambiare per fatti le sentenze giudiziarie, come se fossero in sé verità. Le respingono con lo stesso zelo accurato e implacabile con cui - nel film-inchiesta Insider - le corporation delle sigarette mettono a tacere lo scienziato che, con competenza difficile da smentire, denuncia l'imbroglio del fumo sicuro.
La citazione ci aiuta a capire i due punti di riferimento (e di luce) nel lavoro di Marco Travaglio, libro dopo libro e articolo dopo articolo (soprattutto su l'Unità). I due elementi imprescindibili sono i fatti e la narrazione dei fatti. Travaglio sposta continuamente il punto di equilibrio del suo lavoro da un lato all'altro, non allo scopo di agitare una denuncia del giornalismo complice di fatti e malefatte di un regime. Il suo scopo è più semplice e allo stesso tempo molto più drammatico: la realtà è falsa (ovvero alterata, camuffata, deragliata, nascosta) prima ancora di essere narrata con complice tolleranza, benevoli aggiustamenti e opportune omissioni. Ed è falsa prima ancora che un «regime» (o governo illegale, fondato sul conflitto di interessi e la contiguità con il crimine organizzato) pieghi eventi e decisioni, leggi, interventi e annunci ai suoi speciali interessi. E la realtà - nell'universo politico in cui viviamo - è falsa nel momento in cui ogni decisione viene schermata, poi collegata con spinte e gruppi di interesse, ma attentamente separata dalla consapevolezza, partecipazione e scrutinio dell'opinione pubblica.
Per questo eventi assurdi e inspiegabili avvengono anche quando - ai tempi di un governo onesto e pulito - si scopre che dentro una legge Finanziaria, discutibile ma non scritta a beneficio di alcuni, si celano inspiegabili colpi di spugna (colpi di mano e di mani anonime) destinati a cancellare reati finanziari di dipendenti pubblici, scavando un pauroso fossato non solo fra governo e giustizia, ma anche fra un governo (proprio perché governo onesto) e i suoi elettori. E soprattutto fra politica e cittadini.
Contro Travaglio - fatalmente mal visto da molti tipi di addetti ai lavori - si ripete l'accusa di identificare i fatti con le sentenze dei tribunali, e le sentenze dei tribunali con la «verità». Immaginando per un momento che l'accusa sia in buona fede, è facile rispondere che nel lavoro di Travaglio - nelle sue inchieste giornalistiche che lo portano a sbrogliare, quasi da solo, matasse di eventi altrimenti illeggibili - non è la «verità» il suo riferimento, e meno che mai il suo fine. È l'accertamento, che dovrebbe essere il lavoro irrinunciabile del giornalista ma che lo è sempre meno. Quanto alla venerazione delle sentenze, la risposta è semplice e lo stesso Travaglio l'ha proposta tante volte: la questione, per chi fa mestiere di informazione, non è il ruolo sacro delle sentenze. La questione è più modesta, essenziale e drammatica. È una grave omissione ignorarle, pretendere che non ci siano e creare in tal modo un buco irrecuperabile nel flusso delle notizie.
Senza Marco Travaglio e i pochi (cinque? sei?) giornalisti che lavorano come lui, l'insistenza di alcuni sullo scandalo Previti - che, nonostante la pesante sentenza a suo carico e l'interdizione dai pubblici uffici, va a passeggio per Roma e resta deputato - sembrerebbe solo malanimo e accanimento. Senza l'ossessione dei fatti, il ruolo di Marcello Dell'Utri (indagato, processato e condannato in primo grado per mafia) come fiduciario unico e filtro esclusivo del «nuovo» partito di Forza Italia, apparirebbe solo l'ennesima stranezza nella strana vita italiana.
Ma il libro La scomparsa dei fatti racconta, denuncia e preannuncia una situazione più grave e un male più esteso della polemica berlusconiana. Primo, la deliberata abolizione dei fatti infuria a destra, dove quasi ogni dichiarazione e atto formale è frutto di una divaricazione dalla realtà e di un camuffare gli eventi anche a costo di cancellare intere parti di ciò che è accaduto. Ma il «trend» è tutt'altro che esclusivo. Una sorta di pretesa di amputare la realtà circola in tutta la cultura dell'informazione contemporanea (certo in quella italiana) e il rifiuto di amputare i fatti, benché sia raro, torna sempre a provocare irritazione (e a volte reazione vendicativa) lungo tutto lo schieramento politico. E tutto ciò - benché ormai sia regolare comportamento degli uni (giornalisti) e degli altri (politici, gruppi dirigenti, potere) - viene annunciato per la prima volta nel libro di Travaglio.
Secondo. La tensione fra potere e stampa c'è sempre stata, in Italia come altrove. Basti ricordare un evento del 1962 americano. Quell'anno, indispettito da critiche e rivelazioni ritenute ingiuste, il presidente Kennedy annunciò pubblicamente di aver disdetto l'abbonamento della Casa Bianca al Washington Post. La reazione al momento fu tale da suggerire al presidente un immediato annullamento della sua decisione. Da allora, nel mondo globalizzato e finanziarizzato, la debolezza di tutti i mezzi di comunicazione si è fatta marcata persino a confronto con la debolezza della politica. In Italia il fenomeno è diventato sudditanza. Non si dice nulla di ciò che non si deve dire, e questo spiega la marginalizzazione della professione giornalistica, che non riesce più ad avere un contratto.
Terzo. Il commento diviene lo strumento di informazione dando luogo a un paesaggio disossato, in cui di volta in volta (o di stagione in stagione) si cerca sul mercato la firma giornalistica adatta al gioco in corso e scompaiono a mano a mano le «grandi firme», che ingombravano con qualche residua ostinazione di coerenza.
Più degli altri libri di Travaglio (alcuni veri e propri classici da consultazione per la caotica epoca post-politica in cui viviamo) questo è un manifesto. Dimostra, prova, argomenta nel celebre modo, che si potrebbe contraddire solo scoprendo un errore. Ma l'errore non c'è; c'è la prova provata di una vera svolta nella storia della comunicazione: la morte dei fatti, sotto un cielo gremito di palloncini colorati e spesso folklorici detti «le opinioni», confezionate il più delle volte per il miglior offerente.



INES TABUSSO