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CORRIERE DELLA SERA
18 dicembre 2006
Quelle reazioni agli interventi del Papa
Claudio Magris

Ingerenza è una brutta parola; indica l'indebita intromissione in affari altrui, l'illecito esorbitare dal proprio ambito di competenza per desiderio di controllare e dominare gli altri. Tuttavia, pure intervenire in soccorso di qualcuno che viene aggredito per strada è un'ingerenza — in questo caso lodevole e generosa — in faccende che riguardano il picchiato e il picchiatore.
L'ingerenza può essere dunque, a seconda dei casi, la libidine di potere di donna Prassede che smania di regolare l'esistenza degli altri, magari convinta di farlo in nome della Divina Provvidenza, la brutale invasione di territori materiali e spirituali che appartengono ad altri o il nobile impulso di non assistere vilmente inerti alle violenze e alle ingiustizie subite da chi non può difendersi.
Ma il moralista, quanto più è sincero, tanto più è tentato dal potere, di cui ha realmente bisogno per combattere le sopraffazioni patite dai deboli e per difendere i valori universali-umani minacciati. Ciò vale pure per le istituzioni. Più un'istituzione (politica, religiosa, culturale) esercita un ruolo rilevante, più essa sente il dovere morale di intervenire per migliorare le cose o almeno impedire che esse peggiorino, ma a questo senso di responsabilità etica si mescola facilmente un' ambigua o brutalmente esplicita volontà di potenza, un tentativo di estendere il proprio dominio, che spesso provoca reazioni polemiche e proteste, spicciativi inviti a farsi i fatti propri.
E' quanto ad esempio accade — da sempre, ma recentemente con più frequenza — nei confronti degli interventi e delle dichiarazioni della Chiesa e di Benedetto XVI, al quale non si ha timore di rivolgere contestazioni anche volgari, diversamente da quanto accadeva con il suo ruvido e spettacolare predecessore, nemmeno quando diceva cose simili o analoghe a quelle dette da Papa Ratzinger (e talora anche più duramente tradizionaliste e conservatrici), ma proclamandole a muso duro e con la sicurezza vitale di chi si trova comunque a proprio agio nel mondo e rivela una confidenza quasi fisica con la vita, che scoraggia a priori attacchi destinati a essere spuntati. Forse a Benedetto XVI — molto meno conservatore di quanto si creda, tanto più colto e sottile di Papa Wojtyla, ma forse meno capace di quelle intuizioni storico-epocali che l'altro ogni tanto fulmineamente aveva, anche con rozzezza ma soprattutto con genio — manca quel muso duro che è necessario per governare, pur con amore, una grande realtà materiale e spirituale e senza il quale si finisce per giocare in difesa, atteggiamento quasi sempre perdente.
Così, quando Benedetto XVI esprime ad esempio un'opinione contraria al matrimonio omosessuale, viene contestato, anche villanamente, da persone che peraltro (come è stato scritto da Francesco Magris sul Piccolo) non si sognano di prendere a sassate o almeno a pomodorate le ambasciate di Paesi islamici (alcuni nemici dell' Occidente, altri suoi servi e alleati) in cui gli omosessuali (adulti che hanno rapporti con adulti liberamente consenzienti) vengono decapitati e le donne incinte senza essere sposate vengono lapidate. Le parole di Papa Ratzinger, che non ha decapitato nessuno né incitato alla decapitazione o alla lapidazione, muovono alla contestazione più delle mannaie e delle pietre che massacrano le persone; sono considerate un'inaccettabile ingerenza.
In generale si rimprovera alla Chiesa, e spesso a ragione, un'ingerenza nella sfera politica, che non compete ad essa, bensì allo Stato, secondo il monito del Vangelo che esorta a dare a Dio ciò che è di Dio, ma a Cesare ciò che è di Cesare. Quando la Chiesa — mi riferisco, per il peso che ha in Italia, a quella cattolica, ma il discorso vale per tutte le Chiese e confessioni religiose nel loro rapporto con lo Stato — esercita indebite pressioni per mantenere o accrescere il suo potere, come è accaduto tante volte, il suo comportamento va censurato e le sue pretese vanno respinte. Hanno saputo farlo cattolici di grande fede e fedeltà dottrinale, opponendosi ad esempio al finanziamento pubblico delle scuole private confessionali; si potrebbero citare altri esempi, in cui la Chiesa ha violato la distinzione evangelica fra ciò che pertiene a Dio e ciò che pertiene a Cesare.
Spesso tuttavia si critica un'ingerenza politica della Chiesa solo perché non si condivide la visione politica implicita in quell'ingerenza, mentre si saluta con fervore un'ingerenza di segno politico opposto. Si è aspramente, e non a torto, bollata la Chiesa per aver appoggiato, a suo tempo, la Democrazia Cristiana o per aver cercato di favorire alleanze di quest' ultima con un partito politico piuttosto che con un altro. Ma tutti coloro che hanno espresso queste critiche, l'avrebbero fatto con altrettanto sdegno se la Chiesa si fosse ingerita nella politica favorendo altri schieramenti o partiti, a essi più vicini? Siamo sicuri di criticare, di volta in volta, l'ingerenza politica della Chiesa in sé e non una sua scelta politica che ci dispiace?
Una volta una mia amica, anticlericale arrabbiata pronta a tappar la bocca ai preti che si occupano di politica, lodava entusiasta Giovanni Paolo II per la sua condanna della guerra in Iraq. Condividevo anch'io quell' entusiasmo, perché condividevo il giudizio storico-politico del Pontefice, ma feci osservare alla mia amica, e non solo per stuzzicarla, che pure quella era un'ingerenza politica della Chiesa, la quale si permetteva di interferire nelle scelte di governi e parlamenti liberamente e democraticamente eletti e in pieno diritto di fare le loro scelte senza interferenze altrui.
Dobbiamo rimproverare alla Chiesa di invadente ingerenza (Pio XII che cerca di boicottare il centrosinistra) o di egoistica e pavida non ingerenza (Pio XII che non si oppone o si oppone troppo poco al nazismo)? Interferire nella politica ancorché aberrante di uno Stato sovrano, in quel caso la Germania, costituisce un'ingerenza, sia pure in quell'occasione auspicabile.
Un'unica soluzione può risolvere queste contraddizioni, ambiguità, ipocrisie che non risparmiano alcun fronte. La Chiesa — come ogni altra società, grande o piccola, e come ogni individuo — ha il diritto e il dovere di battersi per ciò che a suo avviso migliora il mondo e contro ciò che a suo avviso lo peggiora; ha il diritto e il dovere (spesso negletto da essa stessa) di difendere valori quali la giustizia, la libertà, la solidarietà contro ciò che li minaccia, da qualsiasi parte provenga la minaccia. Tale dovere morale non può non avere implicazioni politiche, perché giustizia, democrazia, libertà, dignità della persona non hanno una dimensione solo privata, bensì investono i rapporti fra gli uomini, le istituzioni, le condizioni economiche e così via, aspetti che sono anche e soprattutto politici, terreni in cui la morale diviene politica.
Dinanzi a tutto questo una voce responsabile non può tacere; deve parlare e talvolta pure gridare. Può, anzi
deve farlo solo se non dispone di iniqui privilegi e di strumenti di pressione che le conferiscano un illecito potere. D'altronde ogni intervento ha un peso se non altro perché è la voce di cittadini ossia di elettori; ciò che conta è che tale peso venga messo sulla bilancia con equanimità. E non si vede perché si dovrebbe negare solo alla Chiesa il diritto di esprimersi, giustamente riconosciuto a tutte le associazioni, a quella filatelica come a quella della caccia. I concordati fra Stato e Chiesa sono spesso deleteri perché, conferendo a quest'ultima ingiusti mezzi dì dominio — ad esempio, nel Concordato del 1929, la clausola che prevedeva l'impossibilità per un sacerdote spretato di lavorare quale impiegato statale — la delegittima moralmente e spiritualmente; la condanna a tener la bocca chiusa, a tradire così la sua vocazione di annunciare e testimoniare la Buona Novella, i valori universali-umani. Negli Stati Uniti, in cui non esistono concordati fra lo Stato e le varie Chiese, quest'ultime possono prendere posizioni politiche senza che nessuno, consenziente o avverso a quelle posizioni, possa aver nulla da ridire.
Sarebbe augurabile fosse così pure in Italia, per liberare la Chiesa da quelle residue illecite situazioni di potere (vera cattività babilonese) che facilmente si capovolgono in un ghetto, dal quale la sua voce non può veramente levarsi. Questo sarebbe possibile se divenissero realtà quelle parole che la leggenda racconta Cavour dicesse, in punto di morte, a un religioso: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato».




INES TABUSSO