00 21/03/2006 17:01


"...Vedo il Signor Della Valle che scuote la testa... quando penso perchè un imprenditore, se non è andato fuori di testa, sostiene la sinistra, io penso che ha molti scheletri nell’armadio e che ha tanto da farsi perdonare se si mette sotto il manto protettivo della sinistra e di Magistratura Democratica!... Prego solo il Signor Della Valle, se si rivolge al Presidente del Consiglio di dargli del lei, non del tu"
(Silvio Berlusconi, Convegno Confindustria, Vicenza, 10 marzo 2006)



"Non era mia intenzione spaccare Confindustria. Le accuse che ho fatto le ridirei, le ho dette con il cuore perché volevo scuoterli da un conformismo pessimista. Io credo che in realtà abbiano richiesto le sue [di Della Valle] dimissioni, e lui le abbia date. Non ce l'ho assolutamente verso di lui, non ho mai detto contro di lui una parola ostile".
(Silvio Berlusconi, Skytg24, 20 marzo 2006)



"Io non l'ho trovato duro e lo rifarei; è stato un intervento di verità, ho detto quello che penso, che avevo già detto; forse l'eccezionalità del fatto è stato di rompere la gabbia in cui si cercava di contenermi, che va di moda oggi. Mi è stato chiesto dell'energia e poi sono stato richiamato al rispetto del tempo, ma era un argomento troppo importante per tutti gli imprenditori, stavo spiegando cose molto importanti e sono stato interrotto due volte. Ho parlato con il cuore in mano. Il declino è una favola, una fiaba, inventata da chi diffonde pessimismo per mestiere. La storia passata ci dice che c'è stato un profittare dei soldi di tutti per interessi privati, noi siamo stati molto parchi con i soldi pubblici».
(Silvio Berlusconi, Telereporeter/Odeon tv, 20 marzo 2006)





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CORRIERE DELLA SERA
18 settembre 2004
«Basta capannoni, sono inutili» Il Veneto e i 200 km di cemento
Gian Antonio Stella

Un blocco di cemento di 1.070 metri cubi: è questa la «dote» portata alla provincia di Vicenza, una delle più industrializzate d'Italia, da ogni abitante in più degli anni Novanta. Crescita demografica: più 52 mila abitanti, pari al 3%. Crescita edilizia: più 56 milioni di metri cubi, pari a un capannone largo dieci metri, alto dieci e lungo 560 chilometri. Ne valeva la pena? Valeva la pena di costruire oltre il quadruplo delle case necessarie rispetto all'incremento di cittadini e di insultare ciò che restava delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento e tappezzati di cartelli «affittasi»? Se lo chiedono in tanti, finalmente. Se lo chiedono gli imprenditori più avveduti, che hanno chiarissima l'idea che far concorrenza alla Cina costruendo più capannoni e assumendo più cinesi anziché puntare su innovazione e ricerca è un suicidio. Se lo chiedono un pezzo della sinistra e della destra, a partire dalla Lega che ha denunciato in un allarmato seminario per bocca del presidente provinciale Manuela Dal Lago come negli anni '90 l'agricoltura abbia perso 18 mila ettari contro i 10 mila perduti nel decennio precedente. Se lo chiedono gli studiosi, come quelli coinvolti in un convegno convocato oggi a a Montecchio dall'Accademia Olimpica il cui presidente Fernando Bandini riassume la situazione così: «E' stato un saccheggio». Intendiamoci: di « schei » ne sono piovuti tanti. La provincia è la prima in Italia nel rapporto tra export e Pil, vanta una partita Iva ogni 10 abitanti, un'impresa manifatturiera ogni 31 (media italiana: una ogni 75), una disoccupazione ridicola (2,6%), un fatturato industriale di 41 miliardi di euro, un reddito pro capite oltre 25 mila. Il prezzo pagato all'ambiente, però, è stato elevatissimo. E fa del Vicentino, felicemente stravolto dall'industrializzazione e dal benessere dopo secoli di povertà ed emigrazione («L'altissimo de sora ne manda 'a tempesta / l'altissimo de soto ne magna quel che resta / e in mezo a sti do altissimi / restemo povarissimi») un caso emblematico del Nord Est. Che può insegnare a tutti.
Nel bene e nel male. Spiega ad esempio una tabella elaborata dall'ingegner Natalino Sottani, relatore al convegno di oggi, che la popolazione provinciale (608 mila abitanti nel 1950 saliti oggi a 807 mila), ha avuto un incremento in mezzo secolo del 32%. Una crescita netta, ma abissalmente lontana da quella della superficie urbanizzata, passata da 8.674 ettari a 28.137. Con un'impennata del 324%: il decuplo.
E accompagnata, ovviamente, da un parallelo crollo dei terreni destinati all'agricoltura: erano 182 mila ettari nel 1950, sono 114 mila adesso. Al punto che, stando all'«impronta ecologica» e cioè all'indice che attraverso una miscela di calcoli assai complessi misura qual è il livello dei nostri consumi, ogni vicentino consuma oggi per 39 mila metri quadri disponendone invece di 3.370: oltre undici volte di meno.
Un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi. Così ubriaco di auto-compiacimento per lo stupore del mondo davanti ai successi all'incredibile accelerazione degli ex poareti da esaltare il disordine amministrativo e il «laissez faire» come fucina di creatività. Col risultato che oggi i 121 comuni berici, stando al rapporto allarmato della Provincia, hanno «oltre 500 aree industriali». Le quali, in realtà, assediano quasi esclusivamente i comuni di pianura che sono una sessantina e detengono dunque una decina di «zone produttive» a testa. Un delirio. Del quale fanno oggi le spese non solo i cittadini intrappolati ogni giorno in una delle più intasate reti stradali del pianeta ma gli stessi protagonisti del miracolo, quegli imprenditori che si dannano l'anima per guadagnare sei decimi di secondo nella produzione di un pezzo e poi vedono i camion bloccarsi nella fossa larga sei metri di via Mazzini, sulla strada che porta da Bassano a Padova e che sega in due il paese di Rosà, una strettoia dove ogni giorno si strusciano l'uno l'altro 40 mila camion e 30 mila auto. E agognano la costruzione di una bretella, un ponte o una pedemontana che non si possono fare senza buttar giù una miriade di case e stabilimenti.
«Basta capannoni», disse nella primavera 2003 il presidente regionale Giancarlo Galan. I nudi numeri spiegavano infatti che negli ultimi 5 anni erano state costruiti nel Veneto edifici industriali pari a un capannone alto 10 metri, largo 28 e lungo 200 chilometri e passa. Tanto che a Orgiano, un paese vicentino sotto i colli Berici, la gente aveva raccolto 1.500 firme (una enormità in un paese di 2.700 abitanti) per dire basta: «perché dovremmo aprire nuove fabbriche se non c'è disoccupazione» e «deturpare una delle rare aree incontaminate con strade, cave, discariche e industrie»? Il coro di consensi fu vasto. Gli stessi industriali, o almeno i più attenti, plaudirono. Un anno e mezzo dopo, però, Galan pare aver cambiato idea. E qualche giorno fa, a Cortina, ha spiegato che «il Veneto di domani avrà bisogno di più capannoni, non di meno. E Forza Italia ha il dovere di dirlo. Il problema è come farli».
«Con i gerani, i salici e i sette nani nel giardino?», hanno ironizzato i verdi. In realtà, lo sanno tutti, stanno arrivando al pettine quei nodi che troppo a lungo sono stati rinviati. Riassumibili, se vogliamo, in un nodo solo: su quale modello di sviluppo deve puntare un'area come il Nordest che ha scommesso forse troppo sulla dedizione alla fatica dei «polentoni», sul lavoro dei grandi artigiani come quelli dell'occhialeria (oggi in crisi), sul perfezionamento di prodotti a volte vecchiotti fino a far dire a Federico Faggin, il vicentino inventore del micro-processore, che «è un posto buono per fare sedie e maglioni ma non tecnologia d'avanguardia»? Ciò che appare certo a vedere il caso di Vicenza, dove l'opposizione denunciava ieri nuovi progetti cementizi per un altro milione di metri cubi nei prossimi anni nella sola città capoluogo, è che urge un ripensamento. I dati, infatti, sono lì, sotto gli occhi di tutti. Ogni miliardo di euro di crescita reale è costato un consumo di mille ettari di campagna. E dei 52.150 mila abitanti che risultano essersi aggiunti nel censimento del 2001 a quelli del 1991, addirittura 37.140 sono stranieri. Il che vuol dire che per ogni vicentino in più arrivato nel decennio sono stati tirati su 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Pari a un capannone dieci per dieci lungo 37 metri. Può essere questo, lo sviluppo di domani?



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CORRIERE DEL VENETO
21 marzo 2006
LE REAZIONI
La base è tiepida con mister Ferrari « Il premier ha parlato con il cuore »

Reato ( Associazione industriali di Rovigo): « Raggiunto chi vive i problemi aziendali di tutti i giorni »
PAOLO MARZOTTO Si vergogni chi ha tifato per il Cavaliere, ragioni con i valori non con il portafoglio
NICOLA TOGNANA Non voglio essere coinvolto, questa Confindustria non mi interessa

VENEZIA — Se l'intento di Silvio Berlusconi era quello di creare scompiglio, l'obiettivo è stato
pienamente raggiunto. Lo show vicentino del presidente del Consiglio ha l'effetto di una cluster
bomb tra le truppe confindustriali venete. Il giorno dopo le reazioni degli imprenditori oscillano
tra imbarazzo, irritazione e — contrariamente all'atteggiamento dei vertici romani — aperta
simpatia verso la piazzata del premier.
Non è il caso di Massimo Calearo, cui brucia soprattutto l'idea di una partita « andata bene fino
al novantesimo minuto e andata male ai supplementari » .
Il padrone di casa era pronto a godersi il trionfo personale ( il successo di un maxievento
politico- mediaticonella sua Vicenza) e invece si ritrova a parlare, prendendo ancora a prestito
metafore calcistiche, di « invasione di campo » da parte di Berlusconi. Per Calearo è stata una
« brutta figura, davanti a una signora che rappresentava l'Europa » ( chiaro riferimento al
commissario Neelie Kroes). E non va giù nemmeno quella battuta su « meno Confindustria,
meno vacanze e più azienda » coniata dallo scatenato capo del governo. « Io alle Barbados non
ci sono mai andato » , è la replica del presidente degli industriali berici. « Credo che il 99%
degli imprenditori presenti al convegno sia gente che dalla matti na alla sera suda, lavora e
cerca di mandare avanti l'azienda » .
Ma lo stesso Calearo ammette che la grande maggioranza degli industriali della regione « sta
nel centrodestra » . E non si parla tanto della presunta claque ( « non saprei dire se ci fosse » ,
svicola il vicentino), quanto di imprenditori con cariche associative.
Da Belluno, il presidente Celeste Bortoluzzi attacca: « È evidente che Berlusconi ha messo il
dito nella piaga della diversità di trattamento tra piccola e media impresa e grande industria » .
Parole di sostegno aperto anche dal suo omologo di Rovigo, Giuseppe Reato: « Il premier ha
parlato con il cuore ed è riuscito a raggiungere chi sente e vive i problemi aziendali di tutti i
giorni » .
Il quadrato intorno a Montezemolo non c'è, e Reato ragiona su una situazione « che va gestita
con attenzione » , nel senso che potrebbe sfuggire di mano a viale dell'Astronomia, con un
pericoloso scollamento tra base e vertice. Il trevigiano Nicola Tognana, ex avversario di
Montezemolo per la corsa alla presidenza nazionale, si chiama fuori: « Smentisco qualsiasi
incontro con Silvio Berlusconi sabato a Vicenza. Ho partecipato al convegno di Confindustria
solo nel pomeriggio di venerdì. Da circa due anni, inoltre, non ho avuto più occasione di
incontrare il premier. Diffido chiunque dal tentativo di coin volgermi in qualunque forma nei
confronti di questa Confindustria » che, in cauda venenum , « non mi interessa » .
Tra i critici della performance del Cavaliere si può ascrivere Giancarlo Zanatta, uno dei pochi
imprenditori veneti che, dalla platea, ha potuto rivolgere ( il giorno prima) domande a Romano
Prodi. « Bisognava avere più rispetto in casa altrui — rileva il presidente di Tecnica —
Berlusconi ha voluto rovesciare il tavolo, ma io non condivido le sue accuse. Confindustria non
si deve schierare e non lo ha fatto. D'altronde, non vedo un centrosinistra che mangia i bambini
» .
Durissimo Paolo Marzotto, da sempre simpatizzante ulivista: « Gli imprenditori veneti in platea
hanno tifato per Berlusconi? Normale, si tratta soprattutto di gente abituata ad avere condizioni
di privilegio, ora incapace di far sopravvivere la propria azienda in una situazione di vera
concorrenza. Gente che accoglie Berlusconi come il difensore dei propri privilegi, contro la
legalità. Che si vergogni chi ha fatto il tifo per quel personaggio, responsabile di cinque anni di
sfascio e di una caduta d'immagine internazionale del Paese senza precedenti. Che si vergogni,
e ragioni una volta tanto con i valori. Non con il portafoglio » . Claudio Trabona
Reato ( Associazione industriali di Rovigo): « Raggiunto chi vive i problemi aziendali di tutti i
giorni » PAOLO MARZOTTO Si vergogni chi ha tifato per il Cavaliere, ragioni con i valori non
con il portafoglio NICOLA TOGNANA Non voglio essere coinvolto, questa Confindustria non mi
interessa



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LA NUOVA VENEZIA
21 marzo 2006
Il leader degli industriali regionali rompe l’imbarazzo dopo i fatti di Vicenza. «Il Veneto sempre stato a destra»
Andrea Riello: perché scelgo Berlusconi
Assolto il premier per l’invasione di campo: «Era in campagna elettorale»
Ruolo istituzionale? In questi momenti non è un problema
ALESSANDRA CARINI


VENEZIA. Mai visti tanti curiosi alla firma di un accordo tra Enel e imprese venete. Ma se si vedono i
protagonisti, si capisce perchè. Nella sventagliata di prese di posizione post-Vicenza-Berlusconi, tutti
vogliono sapere che cosa ne pensi lui, Andrea Riello, che rappresenta tutti gli industriali veneti.
Domenica ha staccato le comunicazioni con l’esterno lasciando a Massimo Calearo, «vincitore-sconfitto»
del convegno di Vicenza, l’imbarazzo di destreggiarsi tra la diplomazia di Luca Cordero di Montezemolo e gli
schiaffi di Berlusconi. Ma adesso tocca a lui. E il compito non è meno arduo. Perché deve navigare proprio
tra quella Confindustria che lo ha nominato presidente e che a Vicenza è finita sotto il maglio del presidente
del Consiglio e quella che rappresenta: una platea di piccoli e medi industriali che ne hanno messo in
discussione la legittimità. Così quando gli si domanda se ritiene ancora che gli industriali veneti siano uniti
nel difendere il loro lider maximo, Montezemolo, preferisce pensarci mo, andare sul sicuro e cominciare a
sistemare Giancarlo Galan che ha chiesto le dimissioni del vertice confindustriale. «La politica non dovrebbe
permettersi di invadere il campo delle associazioni industriali - dice - e se Galan vuole dirci che cosa fare
prima si procuri i requisiti per farlo. Primo si compri un’impresa e poi si iscriva alla Confindustria. Così
potrebbe legittimamente dire nelle sedi opportune, e non sui giornali, chi dobbiamo eleggere, se siamo ben o
male rappresentati». Ma poi torna indietro. Troppo in là non si vuole spingere nelle critiche: «Certo, Galan è
uscito dalle righe, ma si capisce, è in campagna elettorale». E se vale per lui la giustificazione, che è una
mezza assoluzione, figuriamoci per Berlusconi, il cui intervento Riello definisce «scoppiettante»: «Il
presidente del Consiglio si gioca tutto in questo ultimo scorcio di campagna elettorale. E’ come un allenatore
che sa che la squadra potrebbe perdere e mette all’attacco anche il portiere: meglio tentare di vincere
facendo tutto il possibile. E se si perde due a zero, invece che uno a zero, pazienza».
E i ruoli istituzionali? L’attacco, alzo zero, contro la Confindustria di Montezemolo? Dei primi nessuna pietà,
semplicemente perché il problema, per Riello, non esiste. Sempre per la campagna elettorale che assolve
tutto: «Il presidente del Consiglio sa che deve dare il massimo e difronte agli industriali sa toccare nervi
sensibili». Il secondo richiede, ovviamente, distinguo più complessi. Riello sostiene che «in due giorni di
convegno non ho sentito una contestazione al vertice Confidustriale. Né un fischio a Montezemolo, né ad
Andrea Pinifarina». Semmai il problema è nato quando un rappresentante degli industriali, nella persona di
Diego Della Valle, lui sì, dice Riello, è uscito fuori dalla «istituzionalità» e «non ha saputo mantenere
quell’equidistanza e quell’equilibrio che si deve avere difronte ad un ospite. Solo quei fischi ho sentito». Non
lo dice, ma si capisce che lo pensa: ben gli sono stati. Non chiarisce perché, nell’orbe terracqueo, solo Della
Valle debba rispettare la forma e l’istituzionalità e i doveri dell’ospitalità. Tant’è. Ma insomma la Confindustria
veneta con chi sta? Con Berlusconi attaccante o Montezemolo attaccato? «I veneti che mi onoro di
rappresentare sono orgogliosi della Confindustria e si sentono rappresentati dal presidente del Veneto Riello
e da quello di Confidustria Montezemolo. Lavoriamo tutti per costruire». Nello slalom neanche Alberto
Tomba potrebbe di più.
Del resto, se si passa dalla forma alla sostanza, avendo negato fino alla morte che le due, almeno nelle
istituzioni si debbano e si possano intrecciare, il giudizio non potrebbe essere più chiaro. Riello sostiene che
gli applausi a scena aperta non sono dovuti a claque che non ci sono state. Ma trovano ragione nel fatto che
gli industriali del Nordest si riconoscono in Berlusconi e che Romano Prodi non ha dato risposte a molte
delle domande che gli interessavano. Prodi rappresenta un centrosinistra fatto da «molta sinistra e poco
centro. Vuole rivedere la legge Biagi, una conquista nella flessibilità delle imprese. Ha detto no alla
cancellazione dell’Irap che rimane per le imprese un ostacolo alla crescita, non ha chiarito come farà a
diminuire il costo dell’energia, parla di tassazione delle rendite finanziarie che Tremonti ci ha chiarito cosa
vuol dire e di imposte di successione, che non possono far piacere a chi ha lavorato tutta una vita e ha
messo da parte due soldi».
E se questo bilancio non bastasse a testimoniare il sostegno convinto del Nordest al centrodestra («Il
Veneto del resto è stato sempre una Regione di destra»), c’è una valutazione finale che taglia la testa al
toro: «Abbiamo avuto poco tempo per abituarci a un governo stabile: meglio verificare se una continuità può
dare risultati piuttosto che cambiare schieramento». Non è questa una dichiarazione politica? «Se politica è
gente onesta che lavora per costruire siamo sì dei politici», risponde. E l’autonomia, l’equidistanza della
Confindustria? «E’un problema complesso. Ne discuteremo. Quell’ultima mezz’ora a Vicenza è un’occasione
di riflessione su quelli che debbono essere i comportamenti di Confindustria in occasione di elezioni così
importanti come quelle che andranno a determinare il governo e il Parlamento». Se ne discuterà negli
organismi direttivi in settimana.



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LA PADANIA
21 marzo 2006
I MOTIVI DELLA FRATTURA
Le piccole imprese in rivolta contro i vertici

Roma - Non si è ancora spenta l’eco dei fatti di Vicenza. E Forza Italia ha buon gioco a cavalcarla perché, nonostante le note diffuse da viale dell’Astronomia che fanno quadrato attorno alla leadership di Luca Cordero di Montezemolo, un disagio nella base degli industriali c’è eccome. E allo stesso modo poco regge la tesi della claque dei 250 inflirtati sostenitori del premier. La Confindustria prima dell’evento vicentino temeva l’effetto applausometro e non certo quello della claque. La piazza del nordest - analizza il Velino - è nel suo dna vicina al centrodestra e teme come fumo negli occhi un governo Prodi collaterale a un sindacato come la Cgil. A Vicenza gli imprenditori erano certamente attenti a quanto il leader dell’Unione andava spiegando il primo giorno, ma l’attenzione accompagnata da brevi applausi non significa certo convincimento e adesione. Il gelo calato poi alle intenzioni annunciate da Prodi di superare la legge Biagi e di minacciare guerra al lavoro precario e alla flessibilità la dice lunga. Una riforma, quella della flessibilità del mercato del lavoro, nevralgica soprattutto per le piccole e medie imprese, che sono l’ossatura del sistema produttivo made in Italy e costituiscono il nerbo del sistema produttivo lombardo e veneto in particolare. Lo scollamento tra il vertice confindustriale rappresentato dal numero uno della Fiat e della base dunque non può essere solo liquidato come propaganda di Forza Italia. E un primo saggio lo si era avuto nel rinnovo del contratto delle tute blu. Ovvero all’interno dell’associazione delle imprese metalmeccaniche capitanate dal presidente degli industriali vicentini, Massimo Calearo. Proprio Calearo che adesso critica Berlusconi. Oltre il 57 per cento delle aziende metalmeccaniche ha al massimo dieci dipendenti che non sono in grado di reggere la contrattazione che si fa nelle grandi imprese, che invocano a piene mani la flessibilità e temono, eccome se la temono, la concorrenza cinese su cui ha acceso un faro, e non solo uno, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. E proprio Tremonti si era distinto sabato a Vicenza prima di Berlusconi per la puntualità e la precisione delle sue risposte che avevano fatto sicuramente più presa sulla platea di quanto non fosse riuscito a fare Prodi.
Così Riello spiega che la platea è stata più favorevole a Tremonti anche perché «la platea rappresentativa dell'imprenditoria del nordest rispecchia un comune sentire orientato verso centrodestra, il Veneto è sempre stato una regione di centro - ricorda il Velino - ed è una delle regioni d’Italia dove il governatore di centrodestra è stato votato per la terza volta. Non è banale questo e il centrodestra liberista si avvicina di più alle idee degli imprenditori piuttosto che il centrosinistra che oggi è fatto da molto sinistra e poco centro». E sulla linea di Riello si sono espressi vari presidenti di associazioni territoriali: «Berlusconi a Vicenza ha parlato con il cuore» ha detto il presidente degli industriali di Rovigo Giuseppe Reato. «Sostenere che a Vicenza Berlusconi si era organizzato una claque - ha affermato Celeste Bortoluzzi, presidente di Assindustria Belluno - è una strumentalizzazione vergognosa. Perché vorrebbe dire che l’ambiente confindustriale non è nemmeno in grado di controllare chi entra nelle sue assemblee». E ancora: «Ognuno è libero di fare e di pensarla come vuole ma è evidente che Berlusconi ha messo il dito nella piaga della diversità di trattamento tra piccola e media impresa e grande industria». E cioè lo scollamento di cui sopra.



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IL SOLE 24 ORE
18 marzo 2006
VIAGGIO NEL NORDEST
In Veneto svolta «neo-dorotea»
A Vicenza fuori dal partito gli organizzatori delle ronde notturne anti-immigrati
Mariano Maugeri
DAL NOSTRO INVIATO

TREVISO - Dal doroteismo al neodoroteismo, passando dal leghismo. La parabola del Nordest delle urla e ora dei
silenzi dovrebbe essere un caso da manuale per cogliere l'alchemica capacità dei veneti di distillare un analcolico
partito di governo da un acolicissimo movimento di protesta.
Il Veneto del 2006 è più simile a quello del 1976 che non del 1996. Una sorta di regressione nel grembo del partito
unico. Vicenza è la rappresentazione di questa mutazione antropologica. La Lega di Manuela Dal Lago, da due
mandati presidente della Provincia, è la copia in scala minore e localista della Dc di Mariano Rumor. Localista per
vocazione e costrizione: le ambizioni della Dal Lago di candidarsi alle Politiche sono state stroncate da tutt'altro che
nobili rivalità interne alla Lega. La Dal Lago non se ne dà pena, e dimentica della secessione bossiana, («sono
federalista, non secessionista») governa con un equilibrio degno dei trisavoli della Repubblica Serenissima.
Equilibrio non significa mollezza. E la Presidente, che è pure capogruppo della Lega al consiglio comunale di
Vicenza, l'ha dimostrato quando ha cacciato dal partito un consigliere comunale, Franca Equizi, che scimmiotta
Mario Borghezio di Torino e il beneamato ottuagenario (dai leghisti veneti, s'intende) Giancarlo Gentilini da Treviso,
per due mandati sindaco e ora prosindaco ma in attesa di tornare primo cittadino dopo aver saltato un giro. La Equizi
vuole cancellare i campi rom, fa le ronde notturne per far sloggiare gli immigrati che di giorno lavorano in fabbrica e
la notte dormono sulle panchine dei giardini di Campomarzio, rompe pure le balle in Consiglio comunale
opponendosi alle varianti urbanistiche e progetti edilizi del sindaco forzista Enrico Hullweck (ma ex leghista ed ex
missino). Qual è la colpa della Equizi? Aver fatto la leghista di lotta. Pratica obbligatoria 10 anni fa, incoraggiata
cinque anni fa, ma adesso del tutto fuori linea e fuori moda. Il consigliere comunale della Lega si prende le rivincite a
modo suo. E sfoggia uno smalto delle unghie verde Lega, cappotto e foulard in tinta e un eloquio senza sfumature
come quello dei suoi maestri. Solo una cosa spiffera al cronista: «Bossi mi ha detto di vigilare sulle porcherie
urbanistiche che si stanno commettendo a Vicenza». La Dal Lago allarga le braccia: «Xe fora de testa».
Ottanta chilometri più a Nord, c'è una città che renderebbe felici generazioni di novellieri. Treviso è un pezzo d'Italia
che va per conto proprio e si diverte ancora per i blitz dell'immarcescibile Gentilini. L'ultimo risale a due settimane fa,
quando si è spinto in visita pastorale in una zona periferica, San Liberale, aizzando gli abitanti a non affittare le case
agli immigrati. Propaganda tardiva, perché nella classe terza elementare della scuola di quartiere ci sono undici
bambini extracomunitari e un trevigiano. Qui la Lega è il partito pigliatutto: sindaco, presidente della Provincia, trenta
sindaci, tre deputati, un senatore e tremila militanti. Un partito popolare, radicato, amato. Lo capisci dal suo
segretario provinciale, Toni Da Re, un uomo di potere stando alla messe di consensi. Ma i trevigiani, un po' come i
napoletani, amano sorprendere. E quando chiedi di scambiare quattro chiacchiere ti risponde di andare in un
autolavaggio circondato da colonne di Tir. Lui tiene con la sinistra il cellulare incollato all'orecchio e con la destra la
pistola sparasapone che sgrassa le auto prima che s'infilino nel tunnel. Da Re, padre partigiano e comunista, si
stupisce di generare meraviglia: «Questo è il mio lavoro: quando non ho impegni politici lavo le auto. Le Lega? Per
fare il federalismo che vogliamo ci serve il 51 per cento».
La maggioranza assoluta, o giù di lì, la Lega trevigiana ce l'avrebbe già se non fosse arrivato un guastafeste di nome
Giorgio Panto, il Berlusconi del Nordest: tre emittenti televisive, un'azienda che fabbrica «le Mercedes degli infissi» e
una religione germanocentrica che sgrana come un rosario durante i talk show: «Il Veneto deve diventare come il
Baden Wurttemberg». Panto, già passato alla storia delle tv private per essere stato il primo sponsor di «Colpo
grosso», ora vuole lasciare una traccia nella storia politica italiana come &la spina che trafiggerà il cuore della
Lega». Sembra il reliquiario di un parroco di campagna, ma è il manifesto di Progetto Nordest, il partito di Panto. Due
consiglieri regionali, il 19% dei voti in provincia di Treviso (il 6% in Veneto) e la candidatura al Senato il 9 aprile sono
il suo biglietto da visita. Da Treviso non più con rancore, ma con furore.
MARIANO MAUGERI



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CORRIERE DEL VENETO
7 marzo 2006
Gobbo resta potente ma il grande manovratore è Stefani.
Le proteste di Padova
Via i leghisti «anti» Credieuronord
E Verona diventa il nuovo feudo
di A. Z.

VENEZIA — Adesso sappiamo chi comanda nella Lega del Veneto. Gianpaolo Gobbo, certo, ma
il vero uomo forte consacrato dalla spietata competizione per le liste elettorali è Stefano
Stefani, il plenipotenziario vicentino che ha condotto un'autentica opera di disboscamento del
ceto parlamentare leghista nell'area vasta Padova- Vicenza- Verona.
I sopravvissuti si contano sulle dita di una mano: Federico Bricolo, veronese, alla Camera;
Paolo Franco, vicentino, al Senato ( oltre allo stesso Stefani, naturalmente, che capeggia
l'elenco per Palazzo Madama). Rispediti nei posti di rincalzo delle liste o addirittura a casa:
Francesca Martini, Luigino Vascon, Giovanni Didonè, Flavio Rodeghiero, Umberto Chincarini,
Antonio Vanzo. Alcuni tra loro avrebbero scontato un peccato mortale agli occhi dei vertici
leghisti: il fatto di non avere messo mano al portafoglio per contribuire al salvataggio di
Credieuronord, la claudicante banca di riferimento del Carroccio.
Molto meglio è andata agli uscenti dell'al tro pezzo di Veneto: sotto l'ala protettrice di Gobbo,
sono di nuovo in rampa di lancio i trevigiani Giampaolo Dozzo, Guido e Luciano Dussin,
Piergiorgio Stiffoni ( quest'ultimo al Senato).
Stefani ha fatto piazza pulita cominciando da casa sua. A Vicenza, costretti nelle retrovie
Vascon e Didonè, emerge il quarantenne Alberto Filippi, vicesegretario provinciale, preso per
mano da Stefani e trainato fino al quarto posto di lista, che vale l'elezione sicura. Nessuno dei
nomi proposti ai capi milanesi dalla segreteria provinciale è stato preso in considerazione:
neppure quell'Alessandro Testolin, assessore provinciale molto considerato dalla presidente
Manuela Dal Lago, che è finito a fare numero a metà della lista per il Senato.
A Verona c'è stata la rivoluzione. La provincia scaligera avrà addirittura tre deputati, come la «
capitale » leghista Treviso, due dei quali nuovi di zecca. Sono Matteo Bragantini, assessore
provinciale emergente molto vicino all'uomo forte del Carroccio ve ronese, Flavio Tosi, e
Alessandro Montagnoli, sindaco di Oppeano. Entrambi hanno scalzato Francesca Martini, l'unica
leghista veneta con incarichi parlamentari, che è finita al decimo posto della lista per la
Camera: « Non nego che ci sono rimasta molto male - ha reagito Martini - ma continuerò a
occuparmi di infanzia e di questioni sociali per il partito » .
E a Padova? Altre fibrillazioni, altre scosse di assestamento. Uscito di scena Rodeghiero, dopo
tre mandati, il testimone è stato raccolto da Paola Goisis ( terza di lista per la Camera),
consigliera comunale a Este. Non sfugga la collocazione territoriale: Este rimane nella Bassa
Padovana, mentre il serbatoio elettorale leghista tradizionalmente sta al nord della provincia.
Così il segretario provinciale, Maurizio Conte ( che è di San Martino di Lupari, nell'Alta), ha
scritto due righe di vibrata protesta ai vertici del partito: « Ho semplicemente riportato - spiega
Conte - le sensazioni della nostra base rispetto alle candidature » . Un po' meglio è andata al
Senato, dove il sindaco di Piombino Dese, Luciano Cagnin, ha spuntato un prestigioso ( e
sicuro) quarto posto di lista.
In apparenza, le cose sono filate lisce nell'altro Veneto, quello dove regna il segretario
nazionale Gianpaolo Gobbo. In apparenza: perché se è vero che gli uscenti trevigiani hanno
costituito un blocco compatto e granitico, per il quinto posto di lista alla Camera - l'ultimo
considerato sicuro per approdare a Roma - è stata bagarre. Alla fine l'ha spuntata Giorgia
Andreuzza, astro nascente ( ha 33 anni) della seconda generazione leghista, sostenuta dal
Veneto Orientale. Ma, fino all'ultimo, le ha conteso quella casella il bellunese Gianvittore
Vaccari, forte dell'appoggio di Gobbo. Niente da fare: azzoppato anche dalle rimostranze che si
sono levate dalle stessa provincia dolomitica, Vaccari è scivolato indietro, finendo per cambiare
aria e andando a occupare il quinto posto della lista per il Senato. Dove la Lega, secondo le
previsioni, ne porterà quattro.
A. Z.



INES TABUSSO