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CORRIERE DELLA SERA
6 febbraio 2006
INAPPELLABILITA'
Un «maquillage» che lascia perplessi
di VITTORIO GREVI

Di fronte al testo della «Legge Pecorella», così come di nuovo approvata dalla Camera, a seguito del rinvio disposto dal presidente Ciampi sulla base di diversi rilievi di «palese incostituzionalità», si ha l'impressione che ben poco sia stato fatto per venire incontro a tali rilievi. L'impianto della legge, infatti, è rimasto il medesimo (a cominciare dall'anomala configurazione della Corte di Cassazione come giudice di terza istanza di merito) con tutte le conseguenze negative che potranno derivarne in chiave di perdita di funzionalità del sistema delle impugnazioni penali e, quindi, di ulteriore allungamento della già oggi «non ragionevole» durata dei processi.
Per quanto riguarda, in particolare, il rilievo concernente l'abnorme ampliamento dei casi di ricorso in Cassazione per vizio di motivazione, il relativo rischio non sarà certo attenuato (anzi, per certi aspetti, sarà aggravato) dalla previsione che tale vizio possa risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da «altri atti del processo» specificamente indicati dal ricorrente. Questa previsione conferma, infatti, che in forza della nuova disciplina la Corte di cassazione sarà tenuta a esaminare i fascicoli processuali (e nella misura richiesta dalle parti) alla ricerca del lamentato vizio di motivazione: col risultato di trasformarsi da giudice di legittimità degli atti a giudice (anche) della ricostruzione storica dei fatti e della valutazione delle prove. Ma proprio questa «mutazione» era stata al centro di una delle principali censure sollevate dal capo dello Stato, poi ripresa con vigore dal primo presidente Marvulli, nel suo discorso inaugurale dell'anno giudiziario presso la Corte suprema.
Passando alla prevista abolizione dell'appello contro le sentenze di proscioglimento, anche a questo riguardo praticamente nulla è stato fatto (se si esclude un ritocco significativo a tutela della parte civile) per superare la disparità di trattamento tra le parti lamentata dal presidente Ciampi, risultando praticamente irrilevante allo scopo il recupero di ammissibilità dell'appello nei soli casi di sopravvenienza di nuove prove decisive. La verità è che l'esclusione dell'appello contro le sentenze di proscioglimento - in un sistema di tipo europeo come il nostro, che continua ad ammettere l'appellabilità delle sentenze di condanna - determina una vistosa asimmetria tra le posizioni di accusa e difesa dinnanzi alla sentenza di primo grado, la quale non può essere compatibile con il principio costituzionale che esige «condizioni di parità» tra le parti nel processo.
Al riguardo si è talora osservato, in questi giorni, che l'idea dell'esclusione dell'appello del pubblico ministero nelle ipotesi in questione potrebbe giustificarsi, all'insegna del favor rei almeno quale strumento correttivo delle «naturali» differenze fra pm ed imputato nell'intero arco del procedimento penale. Senonché, a tutto concedere (altri sono, infatti, i correttivi interni offerti dal sistema processuale), un argomento del genere potrebbe semmai avere senso solo in rapporto alle sentenze di assoluzione per essere stato pienamente provato che «il fatto non sussiste» o che «l'imputato non lo ha commesso». Non così, invece, quando l'assoluzione sia stata pronunciata con formula meno favorevole (ad esempio per l'esistenza di una causa di non punibilità o di non imputabilità), ovvero per insufficienza delle prove a carico, e a maggior ragione quando si tratti di sentenze di proscioglimento per estinzione del reato (ad esempio per amnistia o per prescrizione), poiché in tutte queste ipotesi non solo non risulta accertata la piena estraneità dell'imputato al fatto, ma in certi casi risulta altresì accertata la sua colpevolezza.
A quest'ultimo proposito, il caso più evidente è quello dell'imputato prosciolto in dibattimento per prescrizione grazie alla concessione di più o meno discutibili circostanze attenuanti: com'è capitato al presidente Berlusconi, rispetto a una delle accuse di corruzione, al termine del giudizio di primo grado relativo all'«affare Sme». C'è qualcuno disposto a sostenere che, in simili eventualità, sia «giusto» negare il potere di appello al pubblico ministero e, per opposte ragioni, allo stesso imputato? Eppure questa è la soluzione di asserita «civiltà giuridica» accolta dalla nuova legge, sulla quale non resta che attendersi una seria riflessione da parte del Senato.
INES TABUSSO