00 04/10/2005 12:22
Micromega, giornalisti e risse all’università Roma Tre
Se la stampa fa il girotondo
di FEDERICO ORLANDO


Sarà perché dove c’è Paolo Flores d’Arcais c’è polemica, sarà perché arrivare in macchina all’università Roma Tre-facoltà di lettere è più difficile che trovare l’uscita del Labirinto (e il comune di Roma non ancora scopre il ?lo d’Arianna ovverosia tante e grosse indicazioni stradali nel dedalo dell’Ostiense): sta di fatto che sabato mattina eravamo tutti nervosi, noi delle “tavole rotonde”, al convegno Micromega- Terza università su “Libera stampa in libero Stato”. Parafrasi malinconica della cavouriana “Libera Chiesa in libero Stato”, proprio nel giorno in cui il papa tedesco dice che quella tolleranza è ipocrisia. Ad aumentare il nervosismo c’era lo sciopero della Federazione della stampa, venerdì e sabato: giornali “schierati” come l’Unità, Europa, il manifesto, proprio nel ?ne settimana vendono parecchie o alcune copie in più.
I primi due hanno scioperato, come chiedeva la Federazione, visto che gli editori ri?utano per?no le Commissioni (e una commissione non si ri?uta nemmeno agli elemosinanti dei semafori) sulla legge Biagi e sul lavoro autonomo. Il manifesto invece non ha scioperato, perché è una cooperativa.
Anche il Riformista, che è una “cooperativa fondazione ?nta”, dice il segretario della Fnsi, ne appro?tta per non scioperare, e così il Foglio, e così Libero, perché i loro direttori, dice sempre il segretario Paolo Serventi Longhi, non si sentono lavoratori dell’informazione come noi, giornalisti vili meccanici, ma Personaggi.
Nei quali la spocchia e l’odio antisindacale fanno una miscela berlusconiana perfetta. Non sciopera infatti l’organo di famiglia, il Giornale. Ricordo quando nel luglio 1992 il consigliere delegato Roberto Crespi, aziendalista di ferro, disse a me che, mobilitando dieci quindici redattori altrettanto di ferro, avrei potuto far uscire il giornale nel giorno dello sciopero.
Gli risposi che non scrivevo cartoline precetto, non mobilitavo, e il giornale non uscì. Oggi l’house organ può fare tranquillamente quel che al tempo di Montanelli la proprietà non poteva sognarsi. Inoltre, la sindrome Crespi invade altre proprietà ferrigne, come la Nazione, che l’editore Riffeser ha fatto uscire nell’ultimo week end, confezionata Dio sa da quali precari ricattabili, nonostante il 99 per cento dei giornalisti vili meccanici avesse aderito allo sciopero.
In attesa dunque che i nostri editori premano sulla loro federazione, la Fieg, af- ?nché incontri la federazione della stampa e così gli scioperi che li (ci) danneggiano possano diminuire, l’aula magna di Lettere, affollata di docenti, studenti e giornalisti ansiosi di “Libera stampa in libero Stato”, si è trasformata in una gabbia di leoni. Una parte della sbranatoria, quella del mattino, è stata raccontata da giornalisti/e frettolosi, che poi se ne sono andati a pranzo. E hanno perso il secondo tempo, inaugurato da una tirata di capelli fra il direttore dell’Unità Antonio Padellaro e la sua scrittrice Lidia Ravera, alla quale forse non basta lo spazio che da sempre il suo come il nostro come altri giornali schierati (e anche non schierati) riservano agli intellettuali.
Ma Padellaro non era in vena di ulteriore sopportazione, e non ha fatto sconto al diritto degli intellettuali di essere spesso narcisi, autoreferenziali e spocchiosi. Sicché ha caricato a testa bassa, ricordando, insieme a noi, che ben altro è il problema della libera stampa in libero Stato. Primo: che ci sia un libero Stato. Secondo che, essendo libero, difenda la stampa dal racket della pubblicità, dagli oligopoli, dalle Opa e dalle scalate avventuriste. Terzo: che i giornalisti siano consapevoli di essere protagonisti di una partita e non impiegati del catasto.
Quarto: che – ci siamo permessi di insistere – il problema non è di linciarci fra noi per sapere se Prodi e D’Alema sono stati altrettanto indulgenti col duopolio come lo è stato il padrone-premier; né di sapere se Ballarò di Giovanni Floris è come Porta a Porta di Vespa e se Lilli Gruber è stata embedded come una giornalista bushiana. Tutte cose non vere (chi scrive ha reso una piccola testimonianza: invitato due volte a Ballarò, ha potuto sparare a zero le sue cartucce, avendo di fronte sia il presenzialista tuttodire Giovanardi sia i co-responsabili del degrado camorrista del Mezzogiorno, e via giocherellando).
Alla ?ne della giornata – cominciata verso le dieci del mattino e conclusa alle sette di sera – abbiamo potuto mettere nero su bianco almeno due cose: la prima è che le lotte sostenute in questi anni, a Roma e a Strasburgo, contro il duopolio monopolizzato e il con?itto d’interesse, il racket pubblicitario e la sospensione della legalità per i titolari di concessioni a cui sono però negate le frequenze da occupanti abusivi, debbono costituire parte integrante del programma di Prodi sull’informazione: materia stuprata a destra e compatita a sinistra.
La seconda è che se questi impegni li indirizziamo al leader dell’Unione e alla sua coalizione, è perché, evidentemente, non pensiamo che siamo tutti uguali, a destra e a sinistra, com’era apparso di capire in mattinata.
L’equivoco, diciamo così, era forse nato dall’enfasi dalla Guzzanti in W Zapatero, o dalle requisitorie di Marco Travaglio e Norma Rangeri contro l’attuale Cda Rai, e in particolare contro il suo presidente Petruccioli: che aveva promesso di venire e non è venuto (come non è venuto Mentana, anzi è venuto e se n’è andato), adducendo che lui, il presidente di garanzia, non si fa processare dalla Sabina e dal Marco, che gli ricordano i riti della “rivoluzione culturale”. Che può essere vero, ma forse non è il primissimo problema in un paese dove il servizio pubblico dell’informazione è a servizio del più grande monopolista televisivo privato e la legge sull’informazione la scrive sotto dettatura un ex balilla postfascista e postammiratore del Minculpop.

INES TABUSSO