Altro articolo.....
Duran Duran
Red Carpet Massacre
2007
RCA
Francesco Donadio
Da un lato c’è proprio di che stimarli, i Duran Duran, per questo loro azzardo di ricorrere a due pesi massimi della produzione pop come Justin Timberlake e Timbaland con il rischio di stravolgere completamente il loro caratteristico sound. E sì che di rivoluzioni Simon Le Bon & Co. parevano non averne affatto bisogno, dato che “Astronaut” (2004), il loro primo disco post-reunion, era andato alquanto bene, egualmente apprezzato dai seguaci e – udite udite! – anche da parte della critica, dopo decenni di ingiurie spesso (ma non sempre) prive di fondamento.
Massì, hanno fatto bene, i Duran, testardi nel volersi considerare un gruppo contemporaneo e non uno dei tanti innocui revival acts degli ’80 che hanno rifatto capoccella dopo lustri di silenzio. Insomma: a volersi “bowianamente” proiettare verso un futuro che è ancora tutto da scrivere, con tutte le incognite del caso.
Era comunque nella logica delle cose che un nuovo album, alla luce della (ri)fuoriuscita del chitarrista Andy Taylor, sarebbe stato meno “guitar-oriented”. Quello che non era prevedibile era quanto Justin e Timba avrebbero spedito i Duran in direzione della pista da ballo. A giudicare da “Red Carpet Massacre”, davvero tanto, a tratti davvero troppo. E quello che ci troviamo di fronte è un vero schiacciasassi dance-pop ultra slick e stra-tecnologico, aggressivo e ambizioso, che aspira a competere più con Jay-Z e Rihanna che con i New Order e gli U2.
Come “Astronaut” riprendeva le fila del discorso dall’epoca di “Rio” (1982) e “Seven And The Ragged Tiger” (1983), “Red Carpet Massacre” si riallaccia nelle intenzioni al sottovalutato “Notorious” (1986) che – prodotto da Nile Rodgers – fu un po’ il “Let’s Dance” della band di Birmingham, e al successivo inferiore “Big Thing” (1988), dalle chiare influenze house e hip-hop.
Poi però (come prevedibile) la presenza in cabina di regia di Timberlake & Tiimberland è molto meno discreta di quella di Nile Rodgers, con il risultato che spesso si ha l’impressione di ascoltare un disco di Simon Le Bon solista, dato che in brani come ad es. “Valley” e “Skin Divers” di duraniano resta ben poco, a parte l’inconfondibile voce del cantante.
Ma non è detto che sia un male, perché il sound è davvero bello e – piaccia o meno – “moderno”, enfatizzato da un bel drumming “profondo” di provenienza hip-hop e r’n’b. E le canzoni dei Duran paiono ricavarne nuova linfa. Davvero notevole è “Falling Down”, prodotto da Justin Timberlake, in questo caso senza eccesso di innovazioni. “Falling Down” è il classico singolo di punta alla Duran, una glam-ballad alla Roxy Music, di gran classe e di gran lunga migliore del suo predecessore, la nazional-popolare, insopportabile “Sunrise”. E quasi entusiasmante è (per me) la già citata “Skin Divers”, che inizia con reminiscenze del Bowie di “The Man Who Sold The World” per tramutarsi in tutt’altro, ovvero in una torrida dance-track dove Timbaland la fa da padrone, inserendo perfino un suo azzeccatissimo rap.
Come detto, di tipicamente duraniano non c’è molto: oltre a “Falling Down”, la suggestiva “Box Full Of Honey” che è una sorta di nuova “Save A Prayer”, e “She’s Too Much”, un bel synth-funk databile intorno alla metà degli anni ’80. Altrove la presenza di Nick Rhodes, John Taylor e Roger Taylor è quanto mai impalpabile; ma forse proprio per questo brani come “Red Carpet Massacre”, “Valley”, “Tempted” e “Zoom In” sono tra i più appaganti e interessanti del disco, ancora duraniani da punto di vista melodico ma (grazie ai due Timb) sonicamente anni luce avanti rispetto a quanto Le Bon & Co. abbiano mai realizzato in precedenza.
A parte i riempitivi conclusivi “Dirty Great Monster” e “Last Man Standing” e la sconclusionata “Nite Runners” – confuso e sovraprodotto r’n’b e unico episodio a dare fortemente l’impressione che i Duran abbiano fatto un passo più lungo della gamba – il giudizio complessivo è quindi positivo, e certamente migliore rispetto a quell’esercizio di riciclo che era stato “Astronaut”.
E con tutti i loro difetti, i quattro di Birmingham adesso sono davvero i “last men standing”, unici della generazione del cosiddetto 80s Pop ad avere il coraggio di proseguire ostinati, lo sguardo rivolto fieramente in direzione del Futuro. Come canta LeBon nella title-track, “There’s not so many now still standing on their feet”. Ma i Duran ci sono.
http://www.xtm.it/DettaglioMusicAffair.aspx?ID=6431